BUONI PASTO: DANNO GRAVE PER ESERCENTI E LAVORATORI

BUONI PASTO: DANNO GRAVE PER ESERCENTI E LAVORATORI

Fipe-Confcommercio lancia l'allarme: con l'abolizione del Dpcm a pagare saranno soltanto gli esercenti. E alcuni lavoratori acquistano il buono pasto a una cifra superiore a quella a carico del datore di lavoro.

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22 febbraio 2007
Roma, 22 dicembre 1999

                                                                                    

Buoni pasto: danno grave per lavoratori ed esercenti

 

“Il danno per i lavoratori e gli esercenti è grave. Oserei dire irreparabile�. E’ il commento di Lino Enrico Stoppani, presidente di Fipe-Confcommercio, sulla nuova battaglia per riportare il settore dei buoni pasto sotto una corretta disciplina.

Fipe ha fatto i conti in tasca a tutti e dai calcoli emerge un situazione favorevole in maniera spropositata solo per i datori di lavoro, tanto che a volte la cifra versata dal lavoratore può risultare addirittura superiore a quella sostenuta dal datore di lavoro. Non sempre, infatti, il buono pasto viene distribuito a prezzo zero al lavoratore. Ci sono casi in cui, per via degli accordi sindacali, il lavoratore acquista dal datore di lavoro il buono pasto, contribuendo al servizio sostitutivo della mensa.

In estrema sintesi, il datore di lavoro che decide di fornire ai propri dipendenti il buono pasto in sostituzione del servizio mensa acquista da una società emettitrice i tagliandi il cui valore nominale (in media pari a €5) è riportato sul buono stesso. Poiché il datore di lavoro acquista un numero alto di buoni pasto, chiede uno sconto sull’intero lotto (che può arrivare fino al 20% del valore nominale del buono pasto) alla società emettitrice, creando una differenza fra il valore nominale e il valore reale di ogni singolo buono. Il costo a carico del datore di lavoro per buono pasto da €5, decurtato dello sconto del 20%, a questo punto è di €4. Il buono pasto può essere distribuito gratuitamente al lavoratore che lo accetterà per il valore nominale di €5, oppure può essere venduto al lavoratore. Nel secondo caso, la cifra richiesta al lavoratore varia da €1,5 della pubblica amministrazione fino a €3 richiesti da alcune società private. Quando il lavoratore paga per il buono pasto €3, va a rimborsare quasi per intero i 4 euro spesi dal datore di lavoro. Il costo effettivo per il datore di lavoro a questo punto si riduce a €1 per ogni buono pasto. Il lavoratore pagherà la sua consumazione nel pubblico esercizio utilizzando il buono pasto per il suo valore nominale di €5. L’esercente deve però convertire nuovamente il buono pasto in denaro e può farlo soltanto consegnando i buoni pasto alla stessa società emettitrice, la quale è disposta a cambiarlo a un valore comunque inferiore a quello nominale per non far pesare solo su di sé lo sconto praticato al datore di lavoro. Chiederà così una commissione all’esercente pari a circa la metà dello sconto praticato al datore di lavoro dalla società emettitrice al momento della compravendita (ad esempio sul 20% di sconto la commissione richiesta agli esercenti ammonta a circa il 10, 12%). Il meccanismo ha smesso di funzionare quando le commissioni hanno raggiungono percentuali insostenibili. Da qui la richiesta a gran voce da parte della Fipe di riordinare il settore, come era infatti avvenuto con il Dpcm dove si chiedeva l’obbligo alle società emettitrici di avere un capitale sociale interamente versato non inferiore a 750.000 euro; l’obbligo di certificazione del bilancio; la nullità dei contratti conclusi a mezzo delle aste on line a rilancio plurimo; l’obbligo di stipulare e modificare le convenzioni con gli esercenti esclusivamente in forma scritta e con specifica accettazione delle parti; la previsione di un termine massimo di pagamento inderogabile di 45 giorni per il pagamento dei buoni pasto ai ristoratori ed agli emettitori da parte dei loro clienti; infine, l’adeguamento alle disposizioni del DPCM dei contratti in corso al momento della sua entrata in vigore.

 

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