L'INTERVENTO DEL PRESIDENTE DI CONFCOMMERCIO

L'INTERVENTO DEL PRESIDENTE DI CONFCOMMERCIO

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29 novembre 2007
L’intervento del presidente Sangalli

L’intervento del presidente Sangalli

 

Vi ringrazio per l’invito a partecipare a questo importante appuntamento per il sistema associativo di Modena e provincia. Un invito, quello del Presidente Galassi, che ho accettato con molto piacere, anche perché mi dà modo di affrontare oggi qui insieme a voi i temi che più ci stanno a cuore. Sicurezza e sviluppo sono, infatti, molto più interconnessi di quanto si sia fino ad oggi creduto.

 

Un operatore, un imprenditore, non può fare bene il suo mestiere, investire tempo, denaro ed energie, se non vive tranquillo. Cosa che purtroppo attualmente non succede, perché per il nostro Paese questo sembra essere “il tempo dell’ansia�.

 

Considerare la sicurezza un aspetto secondario è stato un grave errore. Per troppo tempo si è sottovalutato non solo il problema, ma anche la percezione che ne avevano cittadini e imprenditori.

 

E non si è avuta coscienza che se le condizioni di sicurezza non sono garantite, il grosso rischio è quello di una risposta individuale.

 

Ci sono già forze politiche che pensano che gli sceriffi fatti in casa possano essere la soluzione.

 

Non scherziamo: in uno stato di diritto la risposta a questi problemi la deve dare solo chi è preposto istituzionalmente a prevenire e reprimere i fenomeni criminali.

Un commerciante con la pistola sotto il bancone ci direbbe che la partita della legalità è persa. Per fortuna, una nostra recente ricerca ha detto che i commercianti non hanno alcuna intenzione di trasformarsi in “giustizieri della notte� pronti a farsi giustizia da soli.

 

Ma proprio la contrarietà ad un clima da Far West rende più forte la nostra richiesta di una “tolleranza zero�. “Tolleranza zero� è indicazione a cui spesso si è voluto dare una connotazione forcaiola.

 

Al contrario: combattere il crimine, ristabilire la legalità, creare le condizioni per una civile convivenza, è uno dei pilastri dello stato di diritto.

 

E “tolleranza zero� deve essere anche nei confronti della contraffazione, un fenomeno dalle cifre impressionanti: il 10% degli scambi mondiali, pari a 450 miliardi di dollari e un giro d’affari in Italia di 8 miliardi di euro.

 

I prodotti contraffatti, come sappiamo, fanno un sacco di danni a tutti: al titolare del marchio, alla distribuzione e all’intera economia.

 

E anche ai consumatori, che al danno di natura economica, aggiungono i pericoli per la salute. Consumatori, però, che questo mercato lo alimentano pure. Non si scappa: se esiste la contraffazione è perché esiste “una domanda del falso�.

 

Per contrastare il fenomeno occorre prima di tutto disincentivare l’acquisto. L’attuale sanzione pecuniaria, molto elevata, è stata motivo di numerosi contenziosi. Perciò, spesso non è comminata.

 

Allora noi diciamo: abbassiamone i massimi, ma applichiamo in modo capillare la norma, così da fare consapevole l’acquirente dell’illiceità del proprio comportamento.

 

C’è poi il problema della protezione del mercato dei prodotti originali in Europa, dove alcuni Stati membri dimostrano scarsa attenzione nella protezione della proprietà intellettuale. Scarsa attenzione ovviamente interessata, potendo infatti in questo modo dare asilo ai produttori di articoli contraffatti. Bene ha fatto dunque l’Unione Europea ad approntare un Piano d’Azione che armonizzi le diverse disposizioni legislative e preveda un sistema di registrazione del marchio comunitario, capace di unificare con un’unica procedura la tutela in tutti gli Stati.

 

Un segnale positivo viene anche dal disegno di legge Bersani, attualmente all’esame del Senato, che prevede la revisione delle norme penali in materia di contraffazione, con un inasprimento delle pene e un rafforzamento dei poteri investigativi e degli strumenti di sequestro dei beni contraffatti.

 

Ad alimentare il “mal d’insicurezza� che sembra aver colpito gli italiani contribuiscono anche le incertezze del quadro economico. Anche da noi, come in tutti i paesi più sviluppati, si assiste da anni ad una rivoluzione: quella del terziario. Non vi voglio annoiare con le cifre. Perciò, metterò solo alcuni dati a confronto. All’industria fa riferimento oggi in Italia il 26,5% del Pil e il 28% dell’occupazione; contro il 71,2% del Pil e il 67% dell’occupazione del terziario, inteso come commercio, turismo, servizi alle persone e alle imprese, trasporti e logistica.

 

Ma su questo processo di ristrutturazione economica ormai avviato, sono troppi i macigni che pesano:

  • una scuola da rifondare o quasi;
  • un andamento della produttività che ci pone tra i fanalini di coda delle graduatorie OCSE;
  • una spesa pubblica corrente e una pressione fiscale troppo elevate;
  • una burocrazia invasiva e spesso inutile;
  • le inefficienze del sistema dei trasporti e della logistica;
  • una “bollettaâ€� energetica tra le più salate d’Europa.

 

Il quaderno delle doglianze potrebbe essere ancora lungo. Ma non serve a niente riempirlo tutto. Ciò che invece conta è individuare contromisure efficaci, progetti di ampio respiro. E soprattutto agire in fretta, perché in tempi di globalizzazione a scivolare nelle posizioni di retrovia ci vuole un attimo.

 

In un ideale manuale della buona politica non dovrebbe mancare un capitolo relativo al confronto tra chi rappresenta le istanze della società e del mondo dell’economia e chi ha la responsabilità delle decisioni finali, cioè il Governo. Non si tratta di confondere i ruoli, ma di cogliere un’occasione preziosa per individuare priorità e per costruire soluzioni che funzionino, anche in termini di consenso.

 

Consenso che non ci possono però chiedere di dare al Protocollo sul welfare. Un documento su cui siamo fortemente critici perché accentua lo squilibrio della spesa sociale a favore delle pensioni, dedica scarse risorse al sostegno di politiche attive del lavoro e contiene disparità di trattamento fra lavoratori dipendenti ed autonomi, su tre temi non da poco, come età di accesso alle pensioni di anzianità, finestre di pensionamento e esclusione dei lavoratori autonomi dai lavori usuranti.

 

Non vanno neanche le modifiche in materia di mercato del lavoro, che introducono nuove rigidità per le imprese. L’aver poi escluso dall’indennità di disoccupazione i lavoratori di imprese del terziario non rientranti nella cassa integrazione guadagni, rischia di avere gravi ripercussioni occupazionali. E che dire del lavoro a chiamata: al piacere del ripristino, in sede di discussione alla Camera, di questa importante forma di flessibilità per il turismo e lo spettacolo si accompagna l’amarezza per l’esclusione incomprensibile e inspiegabile del commercio.

 

Un Protocollo insomma pieno di difetti, per di più largamente finanziato al solito modo: la metà delle risorse necessarie per il superamento dello scalone e per le agevolazioni a favore dei lavori usuranti passerà infatti attraverso l’aggravio della pressione contributiva.

 

Il Protocollo si è aggiunto ad una Finanziaria che non ha smesso di non piacerci. Non ci piace perché anche qui, anche stavolta, si è preferito far leva sulle maggiori entrate e rinviare le riforme strutturali necessarie per contenere la spesa pubblica.

 

Ma se non si interrompe la spirale viziosa tra una spesa pubblica al 50,5% e le entrate totali, fiscali e contributive, al 42,8% del Pil, come si rimetteranno in moto la domanda interna e i consumi delle famiglie, come si ridimensionerà il debito pubblico?

 

Oltretutto, è arrivato il momento di rovesciare il principio “pagare tutti per pagare meno�, nel suo contrario: “pagare meno per permettere a tutti di pagare�. Perché senza una riduzione della pressione fiscale, rischia di farsi più difficile anche la lotta all’evasione e all’elusione. Evasione ed elusione da contrastare con determinazione, a 360 gradi, senza se e senza ma: con la quota del “nero� arrivata ad essere il 17% del Pil italiano, non è più possibile tergiversare.

 

Ma la lotta all’evasione per essere efficace necessita di equità. Purtroppo, spesso, troppo spesso quello italiano è uno Stato forte con i deboli e debole con i forti, capace di lasciar scivolar via miliardi di evasione e magari di accanirsi su un piccolo esercizio commerciale a conduzione familiare, imponendo la chiusura per la mancata emissione di tre scontrini fiscali, a prescindere dal loro importo.

 

Si sente tanto la necessità anche di un po’ di buonsenso. Invece, abbiamo una burocrazia fiscale che sembra specializzata nell’approntare sempre nuovi adempimenti, montagne di dati ed informazioni che, proprio la mole rende difficile, se non impossibile, controllare.

 

In verità, in Finanziaria si possono cogliere alcuni segnali positivi sul versante della semplificazione della fiscalità d’impresa, come il nuovo regime semplificato per i cosiddetti “contribuenti mimini�, che, seppur apprezzabili, comunque non riducono la pressione fiscale.

 

Aspetto questo del controllo cui non si presta l’attenzione dovuta. In Italia le leggi sono tante, troppe. E il fatto che spesso sembrino partorite da un “ufficio complicazioni pratiche semplici� rende tutto più nebuloso. Il risultato è un sistema di regole farraginose e impossibili da seguire, che lascia ampi margini di discrezionalità a chi quelle regole dovrebbe farle rispettare. E questa terra di nessuno, dove spesso chiudere un occhio è l’unica possibilità che ha il controllore per non mandare in tilt il sistema, può diventare humus ideale per comportamenti opachi, scambi di favori, sacche di arbitrio.

 

E a proposito di arbitrio siamo sempre più convinti che gli indicatori di normalità economica non vadano. Non vanno perché sono stati costruiti artificiosamente dall’amministrazione finanziaria facendo riferimento ai 200 studi di settore operanti, ma non ai circa 2000 modelli organizzativi che ne costituiscono l’articolazione più di dettaglio. Con la conseguenza di ignorare l’estrema diversificazione di quei quasi 4 milioni di contribuenti cui gli studi si applicano.

 

Gli indicatori avrebbero dovuto investigare la cosiddetta coerenza dei costi aziendali. Ma non ci vuole Sherlock Holmes per capire che se gli strumenti d’indagine non sono tarati bene, il risultato è di falsare tutto, anche la tradizionale indagine sui ricavi, finalizzata ad accertarne la cosiddetta congruità.

 

Tant’è che si è dovuto correre  ai ripari. Circolari della Agenzia delle Entrate consigliano prudenza nell’applicare gli indicatori alle cosiddette imprese marginali, operanti in territori disagiati o che hanno titolari anziani con ridotti volumi di attività.

 

Più in generale, ora anche l’Agenzia riconosce la necessità che, dato il carattere ancora approssimativo degli indicatori, sarà possibile per i contribuenti poter motivare il loro scostamento rispetto ai parametri degli studi, senza che ciò sia l’anticamera obbligata dell’accertamento.

 

Porre rimedio è semplice: basta una moratoria degli indicatori per il 2006 e una rapida definizione di nuovi indicatori nell’ambito dell’ordinario processo di revisione degli studi.

 

Ma agli indicatori va il merito, potrebbe dire qualcuno, di aver individuato un 30% in più di contribuenti incongrui. Siamo sicuri che il risultato non dipenda piuttosto dalla messa a punto di una “tabella di marcia� troppo ambiziosa per tanti contribuenti? Non si rischia così, tra consumi al palo e overdose tributaria e di burocrazia fiscale, chiusure di attività e ripiegamenti nel sommerso e nel nero?

 

Un ultimo accenno alle trattative sui rinnovi contrattuali, attualmente interrotte. Vorrei precisare che non sono ferme sugli aumenti salariali, su cui c’è disponibilità a discutere, ma sul fatto che la piattaforma sindacale arriva a costare, complessivamente, il 9% di incremento. Ci sono almeno tre punti di costo legati a richieste che riducono ulteriormente la flessibilità e la produttività.

 

 Una cosa non bisogna mai dimenticarla (e non dovrebbe mai farlo neanche la nostra controparte sindacale): noi offriamo servizi. Essendoci al centro del nostro lavoro il cliente e le sue aspettative, dobbiamo poter riscrivere, comportamenti, tempi e modalità di lavoro. Se questo non è possibile, se le aziende non sono in grado di fornire un servizio che soddisfi le esigenze del cliente, perdono anche la possibilità di garantire stabilità e futuro a coloro che vi lavorano.

 

Quello che proponiamo ai Sindacati dei lavoratori è uno scambio che guarda al futuro: lo scambio tra moderazione salariale e condizioni di flessibilità con la disponibilità a ragionare su scelte contrattuali che possano poi favorire la redistribuzione degli incrementi effettivi di produttività.

 

 

 

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