Vicenda Google: è arrivato il momento di darsi una regolata

Vicenda Google: è arrivato il momento di darsi una regolata

La sentenza di condanna per la pubblicazione in rete di un video offensivo (la prima al mondo) rende più che mai necessaria l'apertura di un tavolo di lavoro sul tema delle regole e della tutela della libertà del Web.

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1 marzo 2010
Vicenda Google: una condanna che sa di censura

La notizia è di pochi giorni fa e ha fatto rapidamente il giro del mondo: un tribunale italiano ha condannato Google per non aver bloccato nel 2006 la pubblicazione di un video offensivo (è bene ricordare che il video, messo in rete da alcuni sconsiderati che avevano voluto rendere pubblica la loro prodezza di aver picchiato un down, era stato immediatamente rimosso dal sito). Immediate le proteste del mondo del Web. Ma non solo. Anche gli USA, ad esempio, si dicono preoccupati per la sentenza.

Ma c’è anche chi crede che la sentenza ponga motivi di riflessione. “Non bisogna indulgere in facili giudizi – ha detto Luca Bolognini, presidente dell’Istituto Italiano per la Privacy - In attesa di leggere le motivazioni della sentenza, infatti, sembra comunque essere stata introdotta dal giudice una distinzione sostanziale tra i gestori di contenuti on line, come i motori di ricerca o i social networks anche stranieri, e gli altri provider di comunicazione o di hosting, ravvisando in capo ai primi la titolarità del trattamento di dati e quindi responsabilità penali per omissione di cautele previste nel codice privacy. È una decisione interessante, da studiare”.

Per tornare alla condanna, va ricordato che se si è trattato dell’atto più clamoroso contro Google, non si può certo dire che sia stato il primo. Risale a quattro anni fa il precedente del governo Thailandese, che bloccò l’accesso dei connazionali a YouTube finchè i dirigenti di Google non accettarono di rimuovere oltre 20 video che le autorità ritenevano offensivi. Seguito due anni dopo dal misterioso crollo degli accessi a YouTube in Turchia. Dopo affannose ricerche, quelli di Google scoprirono la causa: il governo turco aveva bloccato gli accessi per colpa di un video, messo in rete dai tifosi di una squadra di calcio greca, in cui si affermava che Ataturk, padre della patria della moderna Turchia, era gay. La rimozione del video non fu sufficiente. La decisione di Google di bandirlo dal solo territorio turco e non dall’intero pianeta, fu sanzionata da un giudice con l’impedimento agli internauti turchi di andare su YouTube per due anni.

Insomma, YouTube, Google, più in generale internet è, non da oggi, motivo di attrito, se non peggio, tra governi e tribunali da una parte, fornitori di servizi web e internauti dall’altra. E forse era inevitabile che, in questa fase ancora in qualche modo pionieristica, fosse così. È infatti relativamente recente la scoperta che il mondo delle comunicazioni non è un lago o un mare, ma n vero e proprio oceano. E il fatto di aver avuto contemporaneamente a disposizione una rete, internet, in grado di facilitarci la “pesca” in questo oceano, se è di enorme aiuto, allo stesso tempo sta anche fornendo più di un motivo di preoccupazione. Perché, è vero: la rete consente di “tirare su” un numero di informazioni, dati, notizie praticamente illimitato. Ma il suo pregio è il suo limite, perché proprio l’enorme quantità ne rende più difficile il controllo, pone problemi tanto più difficili da risolvere perché mai presentatisi prima.

Come considerare internet? Un’immensa terra di nessuno dove chiunque, fino a prova contraria (cioè fino a quando non si scopre o si accerta che quel “chiunque” lede i diritti di qualcun altro) può scorazzare. Una sorta di Far West, insomma. Ma anche nel Far West, fanno notare i più preoccupati per l’anarchia della rete, prima o poi si è arrivati a limitare l’esuberanza dei pionieri, a mettere un po’ di ordine. Oltretutto, il mezzo è sì nuovo e rivoluzionario, ma operando in un campo d’azione, quello della comunicazione, che già fa parte a pieno titolo del mondo del business, non si dovrà forse trovare prima o poi il modo di uniformarsi a criteri e leggi che quel mondo regolano? Se parliamo di gente, imprenditori che comunque pubblicano, anche se in rete, che traggono proventi dalla raccolta di pubblicità, per quale motivo non dovrebbero essere regolamentati esattamente come un qualsiasi altro editore?  

Non c’è dubbio, insomma, che servano regole. Il problema casomai è un altro: chi le deve scrivere queste regole? Proprio a seguito della sentenza del tribunale italiano, Assintel, l’associazione delle imprese ICT (Information e communication Technology) dopo aver ribadito il pieno appoggio a Google, ha colto l’occasione per tornare a sollecitare l’apertura di un tavolo di lavoro sul tema delle regole e della tutela della libertà del Web.

“La sentenza è un forte campanello d’allarme”, ha detto Giorgio Rapari, presidente di Assintel, “perché s’inserisce in un trend in cui la politica e gli apparati giudiziari cercano di ricondurre la novità del Web dentro la cornice normativa esistente, senza averne compreso la natura. Siamo di fronte ad uno storico ed irreversibile cambiamento di paradigma, umano e sociale prima ancora che tecnologico, per il quale dobbiamo elaborare un nuovo approccio di inclusione e non di limitazione”.

La richiesta di una scelta condivisa, di un tavolo per scrivere le regole dove possano sedere anche gli addetti ai lavori, è motivata dal fatto che da sciogliere c’è anche il nodo del controllo dell’informazione. In questo senso i tentativi di regolamentare la materia (la proposta Carlucci dello scorso anno, il decreto Romani oggi) rischiano di intaccare di fatto il principio di libertà del web attraverso un controllo sui fornitori di servizi e tecnologie ICT, legandoli ad obblighi coercitivi o di censura preventiva.

“Non si possono confondere o addirittura sovrapporre” conclude Rapari “una piattaforma neutra, quale internet, in cui sia tutelata la libertà dei singoli di pubblicare in piena responsabilità individuale, dove la libertà arriva fin dove non lede il rispetto di prossimo, con un controllo a monte dell’informazione da parte della piattaforma stessa, tentando di vincolare gli operatori tecnologici al preventivo controllo di quanto i singoli pubblicano. Questa, comunque la si voglia chiamare, sarebbe censura”.

 

Chi si è detto favorevole alla sentenza

Oreste Pollicino, professore di diritto della comunicazione e dell'informazione alla Bocconi, commenta che secondo lui la sentenza «ha a che fare con la privacy, non con la libertà di espressione». Quindi la decisione del tribunale di Milano potrebbe avere una ricaduta virtuosa nel costringere le società operanti su internet a prendere la privacy più seriamente.

"Deve passare il principio – ha dichiarato il professore della Bocconi - che la Rete non può essere zona franca dal punto di vista del diritto. Potrebbe essere dimostrato per la prima volta con chiarezza che i motori di ricerca hanno a disposizione la tecnologia necessaria per tutelare effettivamente la privacy degli utenti. Si tratta di capire se un colosso economico come Google voglia investire su questo. Non si tratta di un problema relativo alla libertà di espressione – ha concluso Pollicino - ma al modello organizzativo di business che viene prescelto. Non dimentichiamo che la legislazione italiana è ancora carente sotto molti punti di vista (la normativa di riferimento, ferma al 2003, dice che gli internet server providers non hanno un obbligo preventivo di vigilanza, ma una volta individuato un contenuto illecito, devono rimuoverlo immediatamente)

 

Chi si è pronunciato contro la sentenza
Tra le voci di dissenso, c’è quella di Guido Scorza, un avvocato esperto di diritto della rete, che ha lanciato l’allarme: “Se passa il principio secondo il quale l’intermediario risponde dei contenuti immessi in rete dagli utenti, la Rete che conosciamo è condannata all’estinzione”.

Anche il comico genovese Beppe Grillo ha commentato molto sfavorevolmente la decisione del tribunale di Milano. “È il reato che determina la privacy – si chiede – o la privacy che determina il reato? Si è commesso un reato: nei confronti dei colpevoli diretti, dei testimoni, del preside, dei professori e dei genitori non è stata prevista alcuna misura seria, mentre l’azione penale viene fatta verso chi ha fatto smettere il reato pubblicato. A questo proposito, anzi, secondo Grillo, i tre dirigenti Google sono “meritori di una medaglia al valor civile”.

 

 

 

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